La confessione e il crocifisso che salvò Roma

17 Mar 2020

Pubblichiamo un articolo di Lucio Brunelli apparso su Vita. Non solo perché cita l’Associazione, che pure fa piacere, ma perché bello, in particolare il cenno finale sui fedeli giapponesi e sul Paradiso, speranza sottesa al vivere cristiano. Tempi ardui, ed è di conforto che papa Francesco sia andato a pregare ai piedi di un crocifisso custodito nella chiesa di San Marcello, venerato da quando rimase illeso nonostante un incendio avesse incenerito la chiesa. Era il 1519 allora, e proprio quel miracolo suggerì ai romani di ricorrere a tale crocifisso contro la peste che dilagò a Roma tre anni dopo. portandolo in processione. E la città fu salva. Ai piedi di quel crocifisso, Francesco ha chiesto la fine dell’attuale flagello. Un miracolo, che poi è quello che aspettano un po’ tutti, chi dalla scienza, chi dal Signore.

 

Fedeli senza confessione? Una soluzione c’è. In tanti, anche tra i malati la chiedono. Ma le condizioni non la rendono possibile. C’è un docente che propone di renderla possibile via cellulare. In realtà nella tradizione della Chiesa è contemplata una possibilità più semplice, suggerita nel Catechismo. Un noto vaticanista ce la spiega.

Morire senza avere accanto le persone care. Senza la confessione e l’estrema unzione. Senza la messa e il funerale. Senza tutto quello che la tradizione popolare cristiana ci ha tramandato come i requisiti di una “buona morte”. Si muore così oggi nella Lombardia di due papi santi. Nel bergamasco, terra natale di Giovanni XXIII, il Papa buono, e nel bresciano, terra natale di Paolo VI, il papa del dialogo. Un’epidemia crudele, perché falcia tante vite innocenti senza pietà per i più deboli; un’epidemia empia, perché sembra volere togliere al malato afflitto da Covid-19 anche il conforto della religione.

Allora i buoni cattolici si muovono, danno fondo a tutto il loro desiderio buono di prossimità e alla loro buona fantasia cristiana perché si trovi un modo, sostenibile sul piano della dottrina cattolica e sul piano della sicurezza sanitaria, per essere vicini ai malati. Anche con i sacramenti, che il catechismo definisce “segni efficaci della Grazia”. Il sacerdote non può accostarsi fisicamente a chi è costretto dalla malattia in isolamento ma desidera confessarsi? Uno stimato professore di diritto canonico all’Università lateranense, don Giorgio Giovanelli, suggerisce allora in via del tutto straordinaria e per casi ben definiti la confessione via telefono. “In questa situazione straordinaria – spiega il docente – per coloro che sono affetti dal virus, ricoverati lontani da casa, dagli affetti, da tutto, soli con se stessi, perché non prevedere la possibilità di essere assolti con l’ausilio dei mezzi della comunicazione sociale? Non un cambiamento della prassi sacramentale ma il dare una risposta ad una situazione nuova nella quale dobbiamo considerare sempre la suprema lex della Chiesa che è la salvezza delle anime”. Uno strappo palese alle regole della confessione classica, che prevede la presenza del confessore e la garanzia della segretezza: obiezioni, serissime, alle quali il professore dell’Università Lateranense replica così: “Chi può sostenere che, date le circostanze, una persona non è presente, dietro la cornetta del telefono o con una videochiamata? L’evoluzione tecnologica consente questi nuovi tipi di presenza: forse io sono presente da quando sono vicino a te almeno 1 mt e, a partire da 1 mt e 10 cm, non sono più presente?”. Domande, che restano aperte.

Altri pensano a soluzioni meno ardite, cercandole tra le pieghe della legislazione ecclesiastica vigente. Come un’assoluzione generale, con deroga all’obbligo della confessione individuale, per i malati gravi in isolamento. Il canone 961 del Codice di diritto canonico prevede già il ricorso all’assoluzione generale in casi specifici ed estremi: laddove ci sia un “pericolo imminente” di morte per un gruppo consistente di persone e non fosse possibile al sacerdote ascoltare ogni singola confessione. Un canone scritto avendo in mente situazioni drammatiche e straordinarie, come il naufragio di una grande nave o un’azione di guerra con centinaia di vite a rischio e il sacerdote impossibilitato, in quel breve tempo, ad ascoltare e assolvere i peccati di ciascuno (leggere qui). Potrebbe, questo canone, essere esteso anche ai reparti degli infettati dal corona virus dove il sacerdote non può entrare per non mettere a rischio la sua salute e soprattutto quella degli isolati? E’ una possibilità concreta, lasciata al discernimento dei singoli vescovi e sacerdoti che possono valutarne in loco, caso per caso, l’opportunità e i benefici spirituali.

Un gruppo di laici cattolici romani ricorda un’altra possibilità ancora. Per supplire, almeno in parte, all’impossibilità della confessione sacramentale. Non richiede alcuna forzatura delle leggi della Chiesa, attinge al quel tesoro nascosto di saggezza e semplicità cristiana che è il Catechismo. «A tanti fedeli in questi tempi», leggiamo nel sito dell’associazione Don Giacomo Tantardini, «manca anche il conforto della confessione. Si può ricorrere, succedaneo che non ha valore sacramentale ma è certo gradito a Dio, all’Atto di contrizione. Dopo un esame di coscienza nel quale si chiede al Signore la grazia del pentimento sincero, si può sempre chiedere perdono al Signore, usando preghiere della tradizione della Chiesa, come l’Atto di dolore o Gesù d’amor acceso». Preghiere antiche e sempre nuove, tutte raccolte nel libretto “Chi prega si salva”, unica pubblicazione cattolica al mondo, credo, ad aver ricevuto nel tempo la prefazione di due papi: prima la firma del cardinale Joseph Ratzinger e più recentemente quella di Papa Francesco (https://www.associazionedongiacomotantardini.it/chi-prega-si-salva/). Il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica stabilisce che la contrizione, se ben fatta, con dispiacere sincero per il male compiuto “rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale”.

Insomma, quando si muovono insieme desiderio di vicinanza ai fratelli malati e fantasia cristiana si scoprono negli interstizi della tradizione tanti spiragli luminosi e una sorprendente assenza di rigidità. Non si deve poi mai dimenticare che la “salvezza delle anime”, ovvero la loro felicità vera, è materia che sta a cuore innanzitutto al nostro buon Dio. Il quale, in tema di misericordia e fantasia, non accetta lezioni da nessuno. Al tempo di feroci persecuzioni, per circa due secoli i “cristiani nascosti” del Giappone vissero senza vedere mai un sacerdote e quindi senza confessioni e messe. Ma non persero la loro fede. E mi riesce difficile immaginare che quando le loro anime salivano in cielo il Signore Gesù facesse trovare chiuse, per loro, le porte del Paradiso.

 

Nota a margine. Sulla confessione, dopo la nostra precedente annotazione, abbiamo ricevuto, e volentieri e pubblichiamo, una  disposizione ai sacerdoti della Conferenza episcopale di Piemonte e Valle d’Aosta, di conforto: “Si rimanga disponibili per ascoltare le confessioni, celebrando il sacramento fuori dal confessionale, tenendosi a debita distanza o con precauzione di idonea mascherina”. Magari, lì come altrove, si può prendere un appuntamento telefonico per evitare file… la fantasia aiuta.

 

 

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