Nel cuore della città eterna, il più piccolo santuario di Roma: la Madonna dell’Archetto. Piccolo davvero, quasi nascosto tra i palazzi adiacenti, è però un cuore pulsante di fede e devozione.
La sua storia è antica e si intreccia con quella delle Madonnelle di Roma.
La beata vergine Maria dell’Archetto
L’icona fu realizzata nel 1690 per iniziativa di una nobildonna romana, Alessandra Mellini, che voleva offrire un’immagine della Madonna alla pubblica venerazione. Allora si usava così.
L’opera fu commissionata a Domenico Maria Muratori che la dipinse ad olio su una pietra; ne risultò un’icona massiccia, 40 chili circa, ma più che aggraziata.
L’effige venne murata sotto l’archetto che collegava due palazzi, nel vicolo che raccordava via di San Marcello e piazza della Pilotta. Un via buia e perigliosa, affidata così alla premura della Mater misericordiae, questo il suo titolo originale.
Gli occhi della Madonnelle
Si tratta di una delle tante Madonnelle poste su palazzi e crocicchi della città eterna, molte delle quali sono ancora al loro posto, immote sentinelle di una devozione ormai residuale che, nonostante l’indifferenza dei passanti, continuano la loro tacita intercessione.
Nel 1796 le Madonnelle romane furono terminali di una storia singolare.
Tutto inizia nel Duomo di Ancona, allora Stato Pontificio. Le truppe napoleoniche sono alle porte della città e la gente, spaventata, si stringe in preghiera presso la “Regina di tutti i santi”, qui conservata.
A un certo punto l’immagine muove gli occhi, tra lo stupore generale. Un movimento inspiegabile, riconosciuto anche dalla Chiesa dopo accurata indagine.
È il 25 giugno e quella di Ancona è solo la prima delle immagini mariane che si animano in quegli anni tormentati dalla campagna napoleonica in Italia.
A una a una, molte delle icone mariane sparse sul territorio pontificio chiudono gli occhi, sbattono le palpebre, cambiano colore o espressione. Saranno centoventidue le immagini sacre interessate al fenomeno: una reiterazione che oggi potremmo definire virale.
La Madonna dell’Archetto e il santo pellegrino
La prima Madonella romana ad “animarsi” fu proprio quella dell’Archetto, che aveva conosciuto le fervide preghiere di Benedetto Giuseppe Labre.
Un legame, quello tra il santo pellegrino e il santuario, che vede anche una coincidenza temporale: il miracolo avviene il giorno successivo a quello della riesumazione del corpo del santo, necessaria alla causa per la sua beatificazione.
Come se la Madonna avesse voluto dare il suo assenso. Tale fu l’accorrere di gente, che l’autorità ecclesiastica decise di indagare, constatando la veridicità dell’accaduto con tanto di compasso per misurare il dilatarsi delle sante pupille (così negli atti).I
ll luogo divenne presto meta di fedeli, che presero a deporre voti ai piedi della Vergine Maria, anche di grande valore. Tanto che si decise di porre dei cancelli all’accesso della via, chiusi la sera per evitare furti.
Una chiusura revocata a seguito dell’intervento del cardinal Stuart, che volle che la sacra immagine fosse accessibile giorno e notte alle preghiere dei romani, Per evitare furti, concluse, bastava una guardia.
L’episodio è indice della devozione che animava il cuore del porporato, ma anche di quella che ormai l’effige suscitava nel popolo romano.
Una devozione tanto diffusa che si decise di porre l’icona in un luogo di culto più consono. Incaricato dell’opera fu il più illustre architetto romano, Virginio Vespignani.
Il piccolo capolavoro
L’edificio, fu stabilito, doveva sorgere dove l’immagine era stata in tutti quegli anni, un luogo carico di memoria, preghiere e grazia.
Uno spazio angusto, che non impedì alla chiesetta di venir su più che bene, di una bellezza che rapisce lo sguardo.
Tanto che il Vespignani considerò quell’opera, pur minima rispetto ai suoi lavori, il suo capolavoro. Ed ebbe tanta venerazione per l’effige sacra alla quale aveva prestato il suo ingegno, che la volle anche sulla sua tomba.
La cupola, benché di dimensioni ridotte, fu resa grandiosa. E le immagini dell’interno furono opera di Costantino Brumidi, noto anche in America per le decorazioni del Campidoglio di Washington.
Causa nostrae laetitiae
Il santuario fu inaugirato l’8 settembre 1850, festa della Natività della Beata Vergine Maria.
Tanti i santi che ebbero cara la sacra immagine: oltre a citato san Benedetto Giuseppe Labre, san Vincenzo Pallotti, san Gaspare del Bufalo, san Massimiliano Kolbe, il beato Bartolo Longo (fondatore del Santurio di Pompei), il beato cardinale Andrea Ferrari.
E tante le grazie profuse, negli anni, al popolo romano, come testimoniano i voti posti a grata memoria.
L’effige ebbe in seguito un altro titolo, quello di Maria causa nostrae laetitiae. Titolo “dolce e soave”, recita un’antica preghiera del santuario. Rivolta a Colei che è “cagione e fonte di ogni nostra allegrezza” perché partecipe “più di ogni altra creatura” della felicità eterna.
Ps. La Madonna dell’Archetto è stato anche luogo di privilegiato conforto per uno dei sacerdoti prossimi a don Giacomo Tantardini, don Maurizio Ventura, da poco scomparso. Egli, ricordano i suoi amici, vi si recava spesso a recitare il rosario.
Ebbe tanto cara questa chiesetta che volle dedicargli anche una pubblicazione. Un piccolo volume, in armonia con le dimensioni del santuario e altrettanto grazioso. Che è stato di spunto e di supporto per il nostro articolo.
di Luca Romano